22 marzo 2014

Pinacoteca Lucio Ranucci - Scuderie Chigi Albani

Nel 2002 Luciano Ranucci (conosciuto come Lucio) ha donato 24 opere al Comune di Soriano, memore di alcune spensierate estati trascorse sui Monti Cimini, dopo la morte prematura del padre originario di Soriano e qui sepolto. Nel marzo 2014, con la riapertura delle Scuderie Chigi-Albani è stata istituita la Pinacoteca a lui dedicata.

Nato a Lecco nel 1925, dove la famiglia si era trasferita per lavoro, Lucio Ranucci trascorre l’infanzia in un collegio di Perugia. Si dimostra presto un giovane inquieto, parte come volontario nel 1943 per il Nord Africa con l’esercito italiano, poi torna in Italia con gli alleati inglesi, scrive sui primi giornali dell’Italia libera e a ventidue anni si imbarca per l’Argentina di Peròn. Quello che doveva essere un breve viaggio si trasforma in un soggiorno di sedici anni. Dal 1947 il Sud America diventa la sua casa, fa lavori di ogni tipo, dal marinaio al fotografo. Inizia ad entusiasmarsi per il fermento culturale ed emerge la sua vena artistica. Si occupa professionalmente di giornalismo e teatro: in Ecuador dirige il teatro universitario di Quito, occupandosi di regia e scenografia, in Costa Rica dirige un quotidiano, e nel 1959 è tra i primi giornalisti ad intervistare Fidel Castro e Che Guevara, dopo la rivoluzione cubana. In Costa Rica prende la cittadinanza, diventa anche segretario dell’ambasciata del Costa Rica a Roma, e torna spesso a Soriano in questo periodo. L’attivismo politico è un tratto importante della sua personalità, tanto da finire per alcuni mesi nel carcere di Managua nel 1955 per aver partecipato alla lotta armata contro la dittatura.


Nonostante un’esistenza gremita di molteplici attività, la passione costante che lo caratterizza è la pittura. La sua prima mostra personale è del 1949 a Lima, in Perù. Da quel momento è un susseguirsi di esposizioni, tra cui la Bienal Panamericana del Messico nel 1958 e la Bienal de Sao Paulo. Ha dipinto diverse opere murali, tra cui un grande pannello nell’aereoporto internazionale di San Josè di Costa Rica. Nel 1963 decide di tornare in Italia, a Roma, e la sua pittura suscita subito l’interesse del pubblico e della critica, raggiungendo presto grande fama nazionale. Gli anni italiani sono segnati dalla scrittura di alcuni romanzi, dalla storia d’amore con un’artista americana, dall’incontro con il gallerista Renato Alberici della galleria Angolare di Milano, e dal ritiro nell’isola di Ischia che influenza i temi delle sue opere. Dopo alcuni anni vissuti a Parigi nei primi anni ‘80, Lucio Ranucci risiede ora in Costa Azzurra. Questo uestoQuestoartista con quasi settant’anni di carriera, che ha preso parte a circa cento mostre personali e collettive in tutto il mondo, dona a Soriano, per il forte legame con le sue radici, le opere che sono una summa della sua carriera artistica. Le prime 21 sono opere a cui era fortemente legato e che non ha mai voluto vendere, vi si trovano quasi tutti i temi da lui trattati in settant’anni di attività. A queste ne sono state aggiunte altre 3, più recenti, per dare completezza al percorso creativo.


L’avventurosa vita di questo artista cosmopolita, poliedrico, entusiasta della vita è riversata nella sua pittura e gli ha permesso di giungere a immagini di intensa forza espressiva. Nonostante lui sia un autodidatta, nelle sue opere si respira una profonda cultura artistica. È difficile restare indifferenti davanti ai suoi quadri, agli occhi dei personaggi, alle mani, ai tratti decisi dei contorni, ai colori. Le tele di Ranucci raccontano sentimenti, dolori e fatiche che sono le stesse a qualsiasi latitudine. E questa è la forza della sua arte, l’universalità, il raccontare attraverso queste figure semplici e forti allo stesso tempo - figure statiche, frontali e solenni - atti e riti della vita quotidiana. I suoi personaggi escono da contorni netti, spesso non hanno sfondo, l’ambientazione è appena accennata, il tempo sembra sospeso come in certi affreschi medievali (Giotto), ma l’eco della tradizione muralista messicana che lui ha ben conosciuto - Siqueiros, Orozco e Rivera - pervade il quadro con l’esaltazione dei gesti, da cui l’osservatore deve cogliere la denuncia insita nell’opera, l’empatia verso gli oppressi e le minoranze.


I personaggi di Ranucci hanno occhi senza pupille, solo grandi superfici piane, scure, senza sguardo. Le bocche non tradiscono emozioni. I volti sono maschere. Questo modo di trattare gli occhi e i volti, proviene da Cézanne, che a sua volta ha influenzato Picasso e Matisse, e in Italia ha influito sull’arte di Modigliani e su alcune opere di Carlo Carrà. Questa assenza di sguardo impedisce agli occhi di rivelare il carattere del soggetto, provoca una spersonalizzazione, ma permette soprattutto all’osservatore di entrare maggiormente in contatto con il dipinto, non essendo influenzato emotivamente dallo sguardo del personaggio. Gli permette di scrutare i comportamenti, che stabiliscono ritmi e significati, di osservare i corpi che sembrano automi, incapaci di qualsiasi slancio emotivo.

Le opere di Lucio Ranucci sono disposizioni studiate di incastri, ripetizioni ritmiche di forme e strutture. È impossibile non farsi assorbire da queste opere, dal suo stile cubo-espressionista che celebra personaggi muti che parlano con i gesti di un’umanità stanca ma non rassegnata, che vive e va avanti. E’ un “mondo immobile” come spesso lo hanno definito i critici.


Sono varie le tematiche affrontate dall’artista, alcune hanno il sapore della cronaca (Morire a Sarajevo, Morte di un uomo a Soweto); altre sembrano allegorie della vita; altre ancora raccontano attimi di vita quotidiana. Lo stile cambia seguendo l’andamento cronologico e tematico. Nelle tele della Fatica di vivere, dei Pescatori, dei Costruttori sono i gesti a suggerire la stanchezza e gli sforzi per guadagnarsi il pane. 


Sono soprattutto le mani, sempre in primo piano come nei murales di Siqueiros, a suggerire la fatica, il prosciugarsi dei sentimenti di quei volti omologati ai ritmi del lavoro, massicci, spigolosi, e negli sfondi le forme sono ostili e aguzze, non c’è nulla che temperi la scena, né il disegno, né il colore. Nei Mercatini, nei quadri che raffigurano le Donne, le persone e le cose sembrano invece fondersi, l’attenzione è tutta rivolta alla plasticità della composizione, le donne sono sempre figure dai contorni netti, rigidi ma qui i colori mitigano la mestizia dei temi precedenti. Una cosa resta costante: gli occhi senza pupille e l’isolamento dei personaggi. Non c’è mai comunicazione. Anche nei quadri appartenenti alla tematica degli Amanti, i due giovani non si incontrano davvero, restano due corpi senz’anima, sospesi nel limbo delle intenzioni, nonostante gli incastri formali sempre presenti, i personaggi sono isolati, denunciando così la crisi di relazioni e la solitudine che tutti viviamo.


Ranucci ha compreso intimamente i dolori, le angosce e le lotte degli uomini e le donne di tutto il mondo, dei luoghi in cui ha vissuto ne ha condiviso le vicende umane, sociali e politiche, ha affondato le mani nella vita in tutte le sue sfaccettature e ce l’ha restituita con la pittura, con il filtro dei ricordi, di una memoria che placa tutto ma allo stesso tempo denuncia con vigore.

Cristina Pontisso

Bibliografia di riferimento:
- AA.VV., Lucio Ranucci, testi critici di L. Caprile, M. de Micheli, R. de Grada, Editions Art du XX siècle, Paris, 2000.
- Sylvie Murphy, Lucio Ranucci, Èdisud, Aix-en-Provence, 1992.
- R. de Grada (presentazione), Lucio Ranucci. Pitture degli anni ‘80, Edizioni d’Arte Angolare, Milano 1986.

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